Ecco alcune ultime impressioni sulla 6a edizione del Film Festival Diritti Umani che si è appena concluso a Lugano. Ha permesso incontri con mondi e persone eccezionali e aperto la porta a riflessioni profonde di cui la società ha un gran bisogno. Il filo rosso che appare guardando i film è la violenza – fisica e psicologica, collettiva o individuale, istituzionale, di gruppi armati o dell’economia privata – e il potere che la esercita. Questo ci ricorda che è proprio a questo che servono i diritti fondamentali: a difendere i più deboli, i più vulnerabili dalla violenza in tutte le sue forme.
 
La storia di una famiglia afgana – due registi e le loro due figlie – costretti ad abbandonare il loro paese a causa delle persecuzioni del regime talebano e che filmano la loro fuga col cellulare. Un film di una qualità sorprendente e poetica. Un film che non risparmia la durezza del viaggio e le denunce (ed esempio dei legami tra la polizia bulgara e i gruppi di estrema destra anti-migranti), senza diventare vittimistico. Il regista e padre della famiglia, Hassan Fazili, era presente in sala e ha commosso tutto il pubblico con la sua testimonianza: “è la storia della mia famiglia, è la storia di tanti che stanno facendo lo stesso viaggio”.
 
Una denuncia degli abusi pedofili nell’istituzione ecclesiastica e del velo di omertà che impedisce la protezione dei più vulnerabili. Ma anche la tematizzazione delle diverse reazioni al trauma, dell’abuso di potere e dei pericoli delle istituzioni gerarchiche. Un film con un messaggio importante di solidarietà e speranza. La discussione finale con Myriam Caranzano (psicologa e direttrice ASPI) e il prof. Markus Krienke (facoltà di teologia dell’USI) ha permesso una riflessione profondità sulle responsabilità di vittime, famiglie, acuzzini e autorità. “Chi vogliamo proteggere i bambini dagli abusi o i preti dai sospetti?”
 
Un film che ci ricorda che in Europa c’è una guerra in corsa, in cui si spara, si combatte e si muore. La protagonista è responsabile per il conteggio delle vittime al fronte e la incontriamo in un centro di riabilitazione per persona con sindrome da stress post-traumico. “Sopravvivere a una guerra è a volte molto peggio.” La discussione finale con il giornalista americano Alan Friedman e il direttore della NGO russofila Ennio Bordato ha mostrato la frattura idealogica sul conflitto in Ucraina, in cui le vere vittime vanno dimenticate.
 
L’ultimo film che vi presentiamo riguarda la guerra e il processo di pace in Colombia. Dove la sofferenza a seguito dello sterminio nella comunità Chocò diventa una testimonianza di coraggio e unità tra i sopravvissuti. Il protagonista del documentario, Leyner Palacios, ci ricorda che, euremisticamente, è una “sfortuna” abitare in una regione ricca di risorse naturali, perché dove ci sono risorse c’è conflitto. “Chi dimentica la storia è condannato a ripeterla” e Palacios si impegna con tutte le sue perché non si dimentichi.
 
Elisa Ravasi
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